Indubbiamente ogni abbandono comporta sempre un’intensa sofferenza che nessun atteggiamento consolatorio né alcun consiglio riesce a lenire.
Per l’abbandono subito, la persona rimasta sola tende a svalutarsi e a permanere per tale motivo nell’illusoria attesa di venir ancora nutrita affettivamente dall’altro; ma per “salvarsi”, in ogni separazione bisogna pagare un prezzo, e talora il prezzo più elevato è l’accettazione della sofferenza stessa. Non si superano i tormenti della passione strappandosi le frecce dal cuore, ma soltanto accettando inizialmente e senza alcuna mediazione che la sofferenza abbia il suo corso.
“Un partner dopo anni di convivenza mi abbandona. Sono disperato, e così lotto accanitamente per estirpare da me il desiderio dell’altro. Ma più lotto in questa direzione, più mi sento dipendere dall’altro.” L’unica forma di salvezza non sta nell’eroica decisione di non amare più, ma nell’accettare e lasciar vivere il dolore senza volerlo né trattenere, né rifiutare. Non ci si libera dall’attaccamento con la rinuncia.
Non si vince l’attaccamento morboso con lo sforzo della volontà, i fermi propositi, i sacrifici eroici. Tutto questo non funziona. L’unico modo di disfarsi di un attaccamento è ritenerlo come tale, rendersi conto che esso è ciò che è […] e non opporsi ad esso come un nemico personale, ma lasciarlo cadere come un morto. Non vergognatevi, non spaventatevi, guardate con bontà e comprensione i vostri attaccamenti e questi dopo poco diminuiranno la loro importanza.
Talora inganniamo noi stessi dicendoci: “quella persona è insostituibile, “nessun altro potrà rendermi felice”, ma ciò non corrisponde a verità. Basterà lasciare trascorrere un po’ di tempo per vedere l’altro per ciò che realmente è e uscire così da una visione distorta della realtà.
Alcuni tendono a reagire con la strategia “chiodo scaccia chiodo”. Ritengo che passare in modo subitaneo da un partner all’altro, da una dipendenza all’altra, nell’intento di non soffrire, sia un grave errore, poiché sovente la scelta del nuovo partner verrebbe, per effetto dell’atteggiamento reattivo, ad essere ancora deformata dalle proprie proiezioni. Quando una relazione finisce, è bene prendersi un periodo per stare da soli e riflettere sulle proprie scelte.
Perdonare e perdonarsi.
Non perdonare e non perdonarsi significa rimanere imprigionati in un rapporto di dipendenza negativa. Chi non perdona si costringe all’infelicità per quattro ragioni:
– l’energia consumata nel rancore viene distolta dalla possibilità di sperimentare una vita più gioiosa e costruttiva;
– il rancore ci fa restare dipendenti e non ci permette di iniziare nuovi rapporti d’amore;
– l’idea sbagliata che tutto il male sta nell’altro e che noi siamo innocenti;
– l’impossibilità di arrivare ad una reale comprensione delle debolezze e delle fragilità che ci portano spesso a commettere errori.
Solo chi può affidarsi al perdono può sperimentare nuovamente l’amore.
Quando una relazione si conclude, si tende a colpevolizzare l’altro. Tale atteggiamento, volto a collocarci su un piano di innocenza, non ci aiuta a crescere.
I pensieri che non ci aiutano.
Vi sono convinzioni che bloccano l’elaborazione della perdita e altre che la facilitano. Le convinzioni bloccanti, centrate sulla logica del bisogno e sulla tirannia dei “devo” [W. Dryden, J. Gordon, 1996] sono:
– questa relazione non deve finire;
– è terribile che sia stato abbandonato e che rimanga solo;
– se sono stato lasciato ciò significa che non valgo abbastanza;
– se l’altro mi ha lasciato è una persona disdicevole;
– non riuscirò mai ad avere un altro partner come lui.
Tali convinzioni comportano l’emergere di emozioni disfunzionali, quali: disperazione, rabbia, paura, depressione.
Secondo la prospettiva cognitivista tali convinzioni vanno elaborate in quanto sono esagerate, illogiche, irrealistiche, vincolate alla pretesa, e quindi irrazionali. Pensare che una relazione non debba mai finire è auspicabile, ma può accadere. Anzi accade più spesso di quanto si possa pensare. Noi apparteniamo alla vita, possiamo desiderare, progettare, ma la vita dispone indipendentemente da noi. Pensare che sia terribile essere abbandonati e rimanere soli provoca sofferenza, ma il tutto è sopportabile, anche perché stare soli non è poi così terribile. Pensare che una relazione finisca perché io o l’altro siamo mancanti di qualcosa è un’ipotesi arbitraria. Posso non piacere a quella persona, ma posso piacere a tante altre e viceversa. E infine pensare che non troverò un’altra o un altro come lei o lui, non corrisponde alla realtà. Ci sono sempre altri partner che potrebbero trovarmi gradevole. Occorre aspettare attivamente con fiducia e sicurezza nelle proprie capacità.
Elaborando le convinzioni bloccanti posso provare emozioni che non mi impediscano di raggiungere i miei scopi, posso continuare a desiderare l’altro senza essere ricambiato, posso riemergere nel mio valore senza dipendere da una persona qualsiasi per amarmi, posso vedere l’altro per quello che è senza doverlo idealizzare, e proprio per queste ragioni posso essere disponibile per l’inizio di una nuova relazione felice e duratura, che, se non sto a piangermi troppo addosso, potrebbe cominciare anche in tempi brevi, oppure potrebbe tardare a presentarsi, ma non per questo occorre che mi disperi.
Da soli, se abbiamo imparato a stimarci, si sta proprio bene.
Passi di: Franco Nanetti. “Gli itinerari dell’Amore e della Passione”